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Lo smart working rischia di esporre i dati sensibili dei lavoratori

Il diffondersi dello smart working sta mettendo a repentaglio alcuni dati sensibili e “sensibilissimi” dei lavoratori. Vediamo quali sono i rischi di questa pratica innovativa

Lo smart working è, secondo la definizione dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Si tratta quindi di un modello organizzativo aziendale che agisce tra il dipendente e l’organizzazione e propone autonomia nel lavoro, regalando maggiore flessibilità alle persone e contemporaneamente responsabilizzandole, facendole lavorare per obiettivi.

Si parla quindi di “lavoro agile”, senza vincoli di orari, che permetta al lavoratore di ritagliarsi i suoi spazi e conciliare meglio vita privata e lavorativa.

Si tratta di una nuova concezione del lavoro che sta iniziando a diffondersi in Italia (sempre un po’ fanalino di coda rispetto all’Europa), che piace molto ai lavoratori ma che prevede un completo cambiamento della mentalità manageriale italiana, che vuole il dipendente seduto alla scrivania più ore al giorno e controllabile in ogni momento.

Non è però una prerogativa delle aziende, anche la PA comincia timidamente ad abbracciare un modello “smart”: sono oggi più di 4000 i dipendenti pubblici che operano da remoto.

Per quanto possa essere vantaggioso gestire da casa il proprio lavoro, questo presuppone l’utilizzo di determinati strumenti informatici che permettano ai lavoratori di interagire con i dati aziendali (senza esporli a rischi) e senza però esibire i loro dati sensibili alla mercé del datore di lavoro.

La legislazione attuale non comprende tutele vere e proprie per il lavoro agile e, a sorpresa, anche il GDPR non ha un vero e proprio capitolo che vada a normare la sicurezza de dati sensibili degli smart workers.

Sono gli articoli 4 e 8 dello Statuto dei lavoratori ad avere la finalità di proteggere i lavoratori dai controlli troppo invasivi, per garantirne la sfera di riservatezza.

L’articolo 4 in particolare vuole “limitare” il potere del controllo a distanza, mentre l’8 vieta al datore di lavoro di indagare opinioni politiche, religiose ecc del lavoratore: i cosiddetti dati sensibili.

Cosa succede però con gli strumenti per lo smart working?

Esistono diversi strumenti tecnologici che vanno dalla webcam a tecnologie wearable che possono misurare livello di attenzione o di stanchezza della persona e che vanno a intaccare pesantemente la privacy dei dipendenti. Infatti se inquadrando il dipendente con la webcam in casa sua è possibile inquadrare anche, ad esempio, un crocefisso appeso al muro o un qualche simbolo di partito, esponendo quindi l’informazione al datore di lavoro, misurare le sue prestazioni con dispositivi digitali, andrebbe ad esporre quelli che vengono chiamati “dati sensibilissimi”.

Diventa quindi pressochè impossibile che queste tecnologie vengano progettate rispettando i principi di privacy by design e dafault, in quanto sono studiate per andare a raccogliere proprio questi dati.

Starebbe quindi al datore di lavoro informare adeguatamente il dipendente sulla raccolta e l’utilizzo di quei dati, dandogli anche la facoltà di opporsi.

Un’opzione suggerita dall’Agenda Digitale è quella di imporre la figura del DPO a tutte le compagnie che utilizzano il lavoro agile, in modo che siano guidati nella scelta degli strumenti e nelle modalità di applicazione della normativa.
Per contro questa imposizione potrebbe essere troppo gravosa per le PMI che quindi si troverebbero obbligate a rinunciare a questo benefit verso i dipendenti.

Un’altra opzione potrebbe essere, nel segno del principio di privacy by design, imporre ai costruttori delle tecnologie in grado di leggere i dati “sensibilissimi” del lavoratore di adottare algoritmi intelligenti, anche attraverso il machine learning, in grado di interpretare tali dati e di trasmetterli solo ove necessario.

Lo smart working diventa quindi una pratica che necessita di ulteriori regolamentazioni così da renderne più trasparente e semplice l’utilizzo, in ottica di una sua maggiore diffusione e di tutti i benefici che sembra portare sulla qualità di vita dei dipendenti.

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