Tutto il mondo tecnologico intorno a noi raccoglie continuamente i nostri dati personali. E noi glieli regaliamo come se non avessero valore.

La tecnologia ormai è tutt’intorno a noi. Abbiamo computer in ogni casa e ufficio e cellulari in ogni tasca. Oggetti inanimati ma profondamente intelligenti, che ci conoscono meglio di chiunque altro. 

Conoscono il nostro nome e la nostra età, il nostro conto in banca, la nostra salute, che musica ci piace, quanto sport facciamo e se siamo bravi a farlo. Sanno dove andiamo e quanto tempo impieghiamo per andarci. Ricordano per mesi cosa abbiamo comprato e anche cosa avremmo voluto comprare ma poi non lo abbiamo fatto. 

Con l’avvento dei social network poi, sanno anche chi sono i nostri amici più cari, con chi ci piace parlare, se siamo fidanzati e, nei casi più estremi anche se siamo degli assassini.

Ma di chi sono tutte queste informazioni?

Una volta avremo risposto senza pensare: sono mie. Ora le cose sono diverse. Noi le barattiamo in cambio di un servizio più o meno (di solito meno) necessario. 

Questi dati personali non appartengono quindi a noi e nemmeno ai nostri cari.

Se la privacy, in passato, era prerogativa di istituzioni governative e Stati democratici, oggi è affidata alle aziende tecnologiche. Apple, Facebook, Amazon, Google. Grandi nomi a cui noi abbiamo rivelato, più o meno consapevolmente, chi siamo stati, chi siamo e chi vorremmo essere. 

Le informative sulla privacy che ci fanno accettare, spesso anche tacitamente, ci dicono che loro terranno al sicuro i nostri dati, che non li daranno mai all’esterno (confini allargati però, non parliamo di singolo Paese ma, almeno, di Comunità Europea) e, i più gentili, ci diranno anche per quanto tempo li conserveranno.

Sintetizzando: i nostri dati sono tutto quello che siamo, i nostri dati siamo noi.

Assurdo quindi pensare che li regaliamo, ci regaliamo, alle aziende in cambio di dieci secondi di gloria sotto forma di like. 

Non siamo assolutamente spaventati o, peggio, consci dei pericoli di questa tratta di informazioni, non consideriamo il furto di identità a meno che un ransomware non ci ricatti direttamente, costringendoci a pagare per avere indietro qualcosa che, nella maggior parte dei casi, non vorremmo fosse divulgato più per evitare l’imbarazzo che per altro.

Bando alle email di spam e alle chiamate dai call-center Balcani, noi vogliamo essere iscritti a Facebook e lo volgiamo gratis.

Sì perché se ci proponessero lo stesso servizio a un prezzo irrisorio (come ad esempio gli iniziali 0,79 cent annuali per Whatsapp) in cambio dell’anonimato, sarebbe subito insurrezione popolare. 

Ecco quindi svelato un mistero che di misterioso ha ben poco: il vero business dei social network (e della tecnologia più in generale) siamo noi. Noi, come individui, facciamo girare un mercato che vale, secondo uno studio commissionato da DG Connect, 60 miliardi euro e che è destinato a crescere.

Noi siamo un business, siamo un prodotto che ha un valore (calcolato da Facebook) e che, di riflesso, è il valore che si può dire diamo a noi stessi.

E il nostro valore è di 16 dollari.